lunedì 19 novembre 2007

Un eroe dei nostri tempi - Storia di un refuso esemplare

Una vita da mediano / Che natura non ti ha dato / Né lo spunto della punta / Né del 10 che peccato / Lì / Sempre lì / Lì nel mezzo / Finchè ce n'hai stai lì (Luciano Ligabue)

Sì, Ildefonso De Peregrini è un eroe dei nostri tempi. Quelli che celebrano gli arrampicatori, i furbetti dalla doppia morale, quelli col culo parato dal padrino politico. Di sicuro è uno a cui è cresciuto il pelo sulla pancia una decina d’anni prima che gli spuntasse sulle guance. Merito delle frequentazioni fin dalla tenera età in quel di via Lecce, dove aveva sede la federazione del fu PCI, fu PDS, fu DS (ad oggi le Pagine Gialle non ancora ci comunicano quale sarà la dimora del neonato Partito Democratico).

La pasta, intendiamoci, non è quella degli eroi per caso: mica si possiede per anomalia genetica quella capacità propria del mondo animale (nello specifico delle testuggini) di sviluppare uno spesso carapace in grado di tenere la coscienza e la dignità (che non è detto sia innata, su questo sono in corso studi approfonditi) ben lontana dal corto circuito tra teoria e prassi che si sviluppa all’esterno. Nella vita quotidiana. No, occorre tanto allenamento, predestinazione, propensione alla servitù. Solo così si arriva, come nel caso specifico, a misurare la distanza tra quel che si asserisce di essere e quel che si è davvero, con meridiani e paralleli.

L’enfant prodige (oramai non più infante, ma sicuramente prodigio) della sinistra post comunista foggiana, comincia la sua trafila come si compete agli imberbi nella Sinistra Giovanile. S’agita e si dimena fin da subito, e la presidenza provinciale del sodalizio è il giusto riconoscimento (ma non pensiate che i dirigenti adulti abbiano dovuto pescare da un ampio mazzo: quelli, i giovanotti, mai più di dieci sono stati. Realmente…).

Fa da testa di ponte per la Quercia dentro l’università: s’avvicina all’UdU, che di accasarsi con il partito non ne vuol sapere e trova ospitalità in casa Cgil, ma si candida alle elezioni dei rappresentanti studenteschi per una sigla messa su in quel di Bari, “Sud”, acronimo di un banalissimo “studenti universitari democratici”, lista battezzata sempre dai Ds. Che il ragazzo puntasse ai piani alti e alle poltrone che contano fin da subito lo si capisce in quel momento. Nessuna gavetta intende fare il nostro, nessun passaggio per i banali consigli di facoltà, la candidatura è al Consiglio di Amministrazione, ai tempi in cui ancora vigeva la “gemmatura” con la sede di Bari. Prende 400 voti (non tutti suoi come spaccerà in seguito ma merito dell’alleanza tra liste) e li farà pesare sul magro piatto della bilancia diessina, che a Foggia prende pugni in faccia da sempre a vantaggio delle “piazze rosse” della provincia.

Sempre non a caso il nostro eroe si lega ai maggiorenti del partito: diventa consuetudine, mentre i suoi pari età poco più che ventenni affollano pub e pizzerie, vederlo a sera tardi, giacca e cravatta d’ordinanza, uscire dalle stanze che contano al fianco di gente del calibro di Dino Marino, per anni segretario a via Lecce. Non lascia i suoi studi a Giurisprudenza, ma la politica è il primo amore. Sgomita sgomita, approfitta del buco nero nella militanza giovanile diessina per sbarcare alla segreteria della storica sezione “Gramsci” di via Lucera, dove fa le scarpe a Peppino Durso, vecchio marpione scuola PCI che per beghe interne prende il largo verso le sponde della Margherita.

Al nostro non sono risparmiate candidature importanti, ma sempre da riempilista, dal Comune fino alla Camera. Partecipa a dibattiti televisivi dove fa il verso ai dirigenti nazionali, ridicoli ventriloqui del nulla espanso che s’ascolta nei salotti stile “Porta a Porta”. C’è chi giura d’averlo sentito citare una volta l’abominevole allocuzione “crostata di casa Letta”, richiamo all’intesa che la destra raggiunse nella dimora del fido scudiero di Berlusconi per “truccare” la legge elettorale nel 1997. Non si lascia scappare nemmeno la stagione “travagliana” e “dipietrista” di sostegno ai magistrati, contro la corruzione della politica. Risulta tra i paladini di convegni che ospitano illustri toghe manipulite, come Gherardo Colombo.

La politica dei palazzi, lo sapete, non offre valori ma un stabile impiego. Così anche la nomina nella segreteria cittadina dei Ds nulla vale rispetto a un tranquillo posto da impiegato pubblico. Alla Provincia la sinistra governa da sempre, così per una decina di giovani che sul proprio curriculum possono vantare quel che più conta, le giuste ammanicature, s’aprono le porte di una “borsa lavoro”, istituto giuridico inventato su due piedi per ficcare dentro in attesa di stabilizzazione portaborse e “figli di”. In culo ai tanti laureati e non dal cognome sconosciuto, il nostro eroe risulta tra i beneficiati e in barba alle preziose mansioni che avrebbero dovuto svolgere, Ildefonso finisce a dirigere la segreteria dell’assessorato ai Lavori Pubblici, gestito dal compagno di partito Antonello Summa da Cerignola.

Ma poi succede che –clamoroso al Cibali!- il centrosinistra riesce a vincere le amministrative nel fortino fascio-bigotto della città capoluogo, grazie alle macerie che lascia dietro di sé come un tank americano l’ex sindaco di An, Agostinacchio. E allora la galassia delle poltrone si moltiplica: assessorati, aziende speciali, Cda… Vuoi vedere che? Ebbene sì, Ildefonso, forte dell’esperienza che gli deriva dall’aver pagato per ben due volte alla posta la bolletta del gas, viene indicato dai Ds per un posto di consigliere d’amministrazione all’Amgas, la ricca municipalizzata dal ricco gettone di presenza.

Non è di minore interesse il fatto che il nostro è beccato anche tra i pochi fortunati in fila all’ingresso del Teatro del Fuoco per lo spettacolo delle polemiche di Antonio Cornacchione, quello con i biglietti esauriti un secondo dopo l’apertura dei botteghini, tutti accaparrati dal jet set politico che a stare tra le prime fila mentre il comico spernacchia l’Italia berlusconiana non rinuncia. Fa niente se tra le oligarchie parassitarie e striscianti vi siano anche loro, che organizzano spettacoli con soldi pubblici a vantaggio dei soliti intimi: portaborse, lacchè, ancora parenti e affini.

Arriviamo all’oggi: alla Provincia in data 5 novembre mettono giù una delibera che chiama ad alta voce Corte dei Conti e magistratura per quanto puzza di bruciato. Nel calderone delle stabilizzazioni da fare entro il 31 dicembre, finisce che gli storici ex Lsu, al lavoro da dieci anni, si beccano una “pre-stabilizzazione”, part time a 18 ore. Mentre per il nostro eroe e gli altri ex borsisti baciati dalla grazia di un illustre padrino, scatta l’assunzione a tempo indeterminato. O così, prevede la Finanziaria, o il 31 dicembre sono sulla piazza.

Solo che non è finita: il giorno dopo la delibera provinciale, il Comune di Foggia riassetta il CdA dell’Amgas, che da 7 si restringe a 5 poltrone. Tra i giubilati, Ildefonso. Ma non pensate si tratti di una bocciatura. Per lui è pronto addirittura il posto di presidente dell’Amgas Blu, la società della holding specializzata nella vendita del gas.

La morale la lasciamo ai preti e ai loro pulpiti domenicali. Conosciamo l’andazzo e per questa ragione spingiamo per l’autorganizzazione, per la politica dal basso. Per questa ragione invece di votare sputiamo in faccia ai rappresentanti del popolo bue. Volevamo solo rendere omaggio ad un eroe del nostro tempo, monumento vivente al fare parassitario a danno degli ultimi, di quelli senza santi in paradiso. Ricordatevi di questo nome quando, e prima o poi accadrà, verrà a chiedervi un voto per “cambiare il paese”.

lunedì 12 novembre 2007

Sulla paga non si fiata

Sono distratto. Dal video acceso figurine fanno salotto. Amabilmente. “Cominciamo bene”, Rai Tre, qualche giorno fa. Mi concentro sulla distinta, rampante silouette della signora più ciarliera. Ha l’aria di chi è profondamente convinto di ciò che dice. E quel che dice assume i contorni del verbo incarnato. Faccio maggiore attenzione, scopro dettagli. È la responsabile di un’azienda che non ho capito, con molti anni di esperienza sul groppone. È un’esperta di risorse umane, una selezionatrice di personale. Mi viene in mente la protagononista dell’ultimo film di Ken Loach. Ma questa non ha l’aria sfatta di chi è nottetempo incappata nei suoi lavoratori precarizzati. Risponde a interrogativi distesi come tappetini, con lo charme di certe aristocratiche che narrano al volgo i precetti dello stare in società. Parla di individualità flessibili come se parlasse di posate d’argento e servizi di piatti decorati. L’estetica e la sostanza del Nuovo Galateo professionale. Spiega come ci si comporta ad un colloquio di lavoro, come si compila un curriculum vitae. Al quesito: “Ma a chi tocca parlare di soldi? Al candidato o al datore di lavoro?”, mi posiziono sulla sedia come se fosse la poltroncina di un aereo in decollo. So che sta per arrivare la risposta più significativa di tutte, e apro le orecchie mantenendomi ai braccioli. La signora fa una smorfia che è tutto dire. Poi sancisce, senza tema di smentita: “Il candidato non deve mai parlare di soldi”, sottintendendo che sarà il buon padrone a farlo, a tempo e luogo debito. La sedia s’alza in volo. Lo sapevo. È in linea: i proprietari di bottega, i responsabili delle multinazionali, i commercianti al dettaglio hanno padiglioni auricolari troppo teneri per simili sconcezze materialiste. Vorrei telefonare, come certi pensionati, dire in diretta alla dispensatrice di perle di buone maniere cosa pensano quelli come me di quelli come lei. Ma non esiste linea diretta. E desisto. Il comandamento ha preso piede. I lavoratori, queste strane bestie informi, devono perdere la cattiva abitudine di informarsi sulla mercede.
A sera sono in centro. Ragazzi e ragazze pigolanti sciamano da un locale all’altro.
Io sono in un pub, al bancone. Ma non per ordinare una Leffe.
Ho appena chiesto un impiego part-time. Fuori c’è il cartello – cercano personale – e il titolare è pensoso. Mi sta squadrando. Analizza i miei sopraccigli. Mi domanda se ho voglia di lavorare. Eccome, mi verrebbe da rispondere, è la mia massima aspirazione servire birre agli sfaccendati figli di papà o agli intellettuali “in” della Rive Gauche foggiana. Annuisco. Mi chiede se ho precedenti esperienze. Gli faccio l’elenco dei mozziconi di gloria raccattati in giro, in questi anni di trasformazione liberale. Resta diffidente, sulle sue. Mi confida che molta gente con le mie stesse credenziali ha preso il largo appena ha potuto. Che tutti garantivano fedeltà e massima disponibilità, da principio. Ingrati, penso, si deve essere proprio ingrati per rifiutare un posto così...
Si scuote. Il colloquio sembra finito. Lo è. Mi saluta e garantisce che mi farà sapere. Ha il mio numero. Ma prima di vedermi di spalle all’uscita si sente in dovere di gratificarmi, di donarmi qualche seme di speranza. Mi conforta: “Hai buone possibilità comunque, perche è apprezzabile il fatto che non mi abbia chiesto quanto pago...”.
Sorrido confortato. Esco soddisfatto. Ebbro di gioia.
Il vademecum del perfetto monaco obbidiente ha fatto scuola.

martedì 6 novembre 2007

Dai palazzi della politica uno sputo in faccia ai precari. Quelli veri

A gennaio 2004 l’Anonima Fratellanza di Jacob affisse dei manifesti in cui dava alla città la lieta novella: “A Foggia la disoccupazione non esiste”. Certo, si trattava di un evento negato ai comuni mortali, ai precari senza santi in paradiso o pezzi grossi in famiglia.

Quasi quattro anni fa l’Amministrazione Provinciale decise di inventarsi un istituto giuridico, quello della “borsa lavoro”, per assumere senza alcuna selezione ad evidenza pubblica alcuni figli, parenti, amici di qualche ras della politica, di destra come di sinistra. Manifestammo il nostro disprezzo verso “disoccupati fortunati” e verso i loro padrini, annunciando come questi rapporti precari altro non erano che l’anticamera di una futura assunzione a tempo indeterminato.

Siamo stati facili profeti, con il callo bello spesso alle furberie dei rappresentanti del popolo bue, che reclama moralità ma fa la fila per rubare il posto ai raccomandati di cui sopra. Il 6 novembre il Consiglio Provinciale ha approvato la stabilizzazione dei borsisti, oggi ridottisi al numero di otto. Verranno assunti entro il 31 dicembre full time e a tempo indeterminato. Tra i fortunati vincitori:

Alfonso De Pellegrino, segretario di una sezione foggiana dei defunti DS, con un posto già ben remunerato nel Consiglio di amministrazione dell’Amgas (insaziabile, il ragazzo…);
Alessia Morlacco, figlia di Vincenzo, sindaco di centrosinistra a Lucera e segretario generale della Provincia (cioè colui che ha vergato di legittimità le delibere di assunzione di ieri e di oggi);
Elviranna Susanna, moglie di uno dei figli di Vincenzo Morlacco (e tanto basta);
Vito Cristino, figlio di un alto dirigente della Regione Puglia;
Omar Prezioso, figlio di un dirigente della Provincia;
Michele Cicoria, figlio del capo degli autisti di Palazzo Dogana;
Alessandro Ursitti, parente del segretario generale della Fiera di Foggia e dirigente di Forza Italia.

Ci avevano già provato a far passare la frode delle assunzioni a tempo indeterminato sotto le mentite spoglie di una selezione pubblica, lo scorso anno. Era stata già approntata la commissione valutatrice e redatta la delibera. Si fermarono per contrasti interni alla maggioranza. Solo che le norme previste nell’ultima Finanziaria hanno accelerato il percorso: assunzione entro la fine dell’anno o licenziamento. Mai avuto dubbi su cosa optassero…

Gli assessori della Provincia parlano di precari che era giusto stabilizzare, per giustificare l’ingiustificabile. Ma l’assunzione degli otto prescelti (assieme ad altri 120, tra questi ex Lsu e altri fortunati entrati negli anni passati sempre grazie alla benedizione del padrino di turno, ma stabilizzati solo part time) è un vero sputo in faccia ai veri precari, tanti giovani costretti per redditi da fame ad accettare il ricatto dello sfruttamento, l’umiliazione lavoro nero, senza il benché minimo diritto o tutela. Anche a morire, come accade in tanti cantieri edili o aziende non a norma.

Noi diamo voce a questi ultimi, ai veri precari, e volentieri restituiamo al mittente lo sputo in faccia, ribadendo tutto il nostro disprezzo, sempre montante.

E a chi ancora è convinto che da questa gente possano arrivare risposte per il diffuso disagio sociale che vivono i “senza padrini”, i senza “pezzi grossi” in famiglia, l’invito –ieri come oggi- è a fare come noi: NON VOTATELI, SPUTATEGLI IN FACCIA!

Anonima Fratellanza di Jacob

lunedì 22 ottobre 2007

La marcia senza suono

cine-racconto del corteo del 20 ottobre a Roma

Le ragioni erano chiare a tutti. Inutile girarci attorno.
Il grande dilemma della giornata, l’unico, è se portarsi o meno il giaccone pesante. Se la temperatura non cala di botto, si rischia di marciare per chilometri con un fardello in braccio; se invece precipita, si rischia il congelamento.
Sappiamo di militanti lucani col cappello rosso, operai veneti dietro striscioni corazzati, attivisti con la bandiera della Cgil, uno con quella dell’Unione. Sentiamo le loro argomentazioni da giocoliere sui trampoli: “Non siamo qui contro il governo, siamo qui per dargli una mano”, “Vogliamo renderci visibili all’esecutivo”, “Siamo i migliori alleati Prodi, i franchi tiratori sono altrove”. Per quanto ci riguarda non abbiamo dubbi o fremiti di coscienza. Questo governo ha fallito in tema di mercato del lavoro (e non solo). Non poteva essere altrimenti, non abbiamo mai avuto pie illusioni al riguardo. Siamo precari della scuola, delle Coop “rosse”, della stampa; o di tutto il resto messo assieme: precari universali, a tutto tondo, beni fungibili nell’era della flessibilità globale. Identità col punto di domanda. E non ci interessa molto – come invece sostiene Vauro – del precariato di Prodi e Mastella. È con spirito conflittuale che scendiamo in piazza, perché non ci sta a cuore la sorte di nessun governo. Non ne abbiamo di amici, da quel versante.

Partono quattro pullman. Nel nostro c’è persino la tv. Viaggiamo gratis, senza contributi volontari. Non ci capita da tempo immemorabile. In altri frangenti della convulsa vita della sinistra di piazza e di palazzo, per aggregarci a sbafo alle manifestazioni nazionali c’era da dare il nome falso. E a volte ricorrere alla plastica facciale, al travisamento dei connotati. Stavolta l’aria è diversa. Siamo accolti nel pullman di Rifondazione. Viaggiamo con gli studenti dei collettivi universitari, con pezzi di Arci e PRC. C’è anche una troupe televisiva. Non ci intervisterà, ma fa niente. Ci è andata di lusso.
Sanno come la pensiamo in tema di desistenze a perdere. Ma capiamo subito che lo sforzo organizzativo è molto più che formale. La sensazione diventa netta, fisica, in piazza Esedra, già dalle 13. C’è tanta gente. La “sinistra radicale” ha dovuto aggirare trappole e vuoti mediatici, buchi dell’informazione difficili da rattoppare. E sta gremendo il suo corteo, sopperendo con una macchina organizzativa degna di tempi migliori ai limiti di propaganda. Si stanno giocando tutto, non c’è bisogno d’essere analisti per capirlo. Lo strappo del 1998 – quello bertinottiano – aleggia ancora nelle coscienze remote dei militanti. La rabbia è trattenuta. Una ragazza sfila con un cartellone che riecheggia Kissinger: “è un governo di merda, ma è il nostro governo”. Posizioni schizofreniche, ridicole, se non si sa leggere lo stato d’animo complessato di questo popolo. Lo hanno accusato d’aver accoltellato Prodi una volta, ed i sensi di colpa sono cresciuti a dismisura. Adesso lo punzecchiano, lo provocano, mostrano le scapole del leader in attesa del bis delle Idi di marzo. Lo stesso leader fa di tutto per farsi abbattere. La tentazione è grossa. Moventi e alibi sono già pronti. Ma si rischia di scontare tutto in una rata sola. Ed è gente troppo abituata a ragionare in proiezioni elettorali per non rendersi conto di quanto suoni patetica l’inconguenza di essere al governo e manifestargli contro; troppo avvezza a misurare la popolarità delle proprie tesi in scranni parlamentari per comprendere la vigliaccheria di un partito che fa indire cortei al proprio giornale e non presenta alla piazza un solo ministro. L’unica via d’uscita è la federazione delle sinistre, diciamo ad alcuni compagni. La fontana inonda d’acqua i presenti. Fa caldo, per la gioia di quelli che non hanno portato il giaccone. L’unica via d’uscita è un anno sabbatico, un manifesto programmatico con Verdi, mussiani, sinistre critiche, anticapitaliste, antiliberiste. Una forte politica di adesione dal basso, di militanza sul territorio, di proliferazione di luoghi e sezioni. Di sicuro ci si destina a trent’anni d’opposizione parlamentare, e ci si può scordare l’odore del potere. Ma l’essere minoranza alla Camera non impedisce d’essere maggioranza sociale nel Paese. O, quanto meno, di poter vantare la maggioranza degli attivi, nelle strade.
I compagni ci guardano stralunati. “Siamo felici che a dire certe cose siate proprio voi...”.
“Ma noi lo diciamo per voi. A noi che ci frega”.

Il corteo è formato. È possente. È immobile. I più furbi tentano di divincolarsi, aggirando i blocchi.
Noi siamo dietro: “L’unica sarebbe costringere tutti a girarsi e diventare testa del corteo”, annunciamo ad un sindacalista delle ferrovie. “Noi potemo divetà solo teste de cazzo!”, replica quello. Autostima alle stelle. Ride, ridiamo tutti.
L’ingorgo tra via Cavour e piazza della Repubblica è micidiale. Non si respira.
Ci sono quelli dell’Orsa, i precari dei traghetti di Messina, gli omosessuali sardi (con tanto di bandiera ad hoc).
In via Cavor possiamo stendere lo striscione: “Vita precaria, Lotta continua”. In tanti annuiscono. Altri si domandano se non vi siano, tra le pieghe della federa, implicite incitazioni alla rivisitazione storica. Volantiniamo. Alle transenne capita a tiro un operaio anziano, con tanto di cappello alla peruviana. L’occasione è ghiotta, gli sguardi si incrociano: “Dai, che stavolta ce la facciamo a mandarlo a casa”, gli dico. Quello ha un fremito, trasforma il sorriso in ghigno, mi guarda come un barbaro. S’allontana con la schiena che è tutta un brivido. Da lontano si gira a guardarci, come per assicurarsi che siamo veri. Non può crederci. Mostri.
La testa del corteo è ferma al semaforo, giù. Qualcuno dà voce alle proprie aspirazioni e la considera già in San Giovanni. Uno del servizio d’ordine della Fiom ci chiede d’accelerare il passo. La prima, la seconda, la terza volta. Scoppia il diverbio: è convinto che siamo noi a bloccare il tutto, ad impedire il lieto svolgersi della passeggiata in centro. Potere jacobino. Prima gli urliamo in testa qualcosa, poi gli spieghiamo con le buone che abbiamo ben compreso il suo bisogno di dare visibilità allo spezzone metalmeccanico, ma che in piazza ognuno si prende gli spazi che occupa.
Ci muoviamo. Attraversiamo una città levitante, infreddolita e indifferente. Una coppia di giapponesi si informa, “Communist Party” replica il venditore di gadget. Migliaia di persone marciano compatte, qualcuno si cordona pure, ma da nessuno schieramento s’alzano slogan. Un fiotto isonorizzato. C’è troppa malcelato timore: far scattare un coro significa affermare o avversare qualcuno o qualcosa. E cosa afferma il popolo della sinistra “estrema”? Contro chi osa schierarsi, oggi? L’ossessione politica e una, una soltanto: qualunque sgarbo è un favore a Berlusconi. Ci penso e ci ripenso da anni. Tutti noi lo facciamo spesso. Sono già tredici anni che questo spauracchio limita la libertà d’espressione dei compagni istituzionali. Ma senza polizia politica (quella è troppo impegnata a vedere “terroristi” tra chi inneggia alla lotta di fabbrica, come a Melfi). Con la semplice presenza in potenza. S’avvia al ventennio, questo spaventapasseri. E una tattica cieca costringe a dissimulare i pensieri, a nascondere gli istinti più razionali, dietro una cortina di frasi opportune che rasentano l’opportunismo. Mentre i fascisti si definiscono “futuristi” e – nel nome del precariato – dipingono di rosso la fontana di Trevi, raccogliendo unanime consenso popolare. Una brutta crisi semantica.

All’altezza di Santa Maria Maggiore il corteo si dirada. Si respira vento gelido. Adesso i giacconi servono sul serio. I fotografi notano lo striscione. Lo immortalano col sorriso. Sembra una benedizione poter fissare sulle digitali questi residui circensi. Noi parliamo d’altro, ormai il fenomeno della sinistra in marcia non ci interessa più. E tantomeno l’inseguirsi di cifre. Dicono 150mila, i più cauti. La questura, da qualche tempo, non si esprime più. Noi riteniamo la cifra azzardata, ma non abbiamo parametri di valutazione. I napoletani battono sui tamburi e chiedono “lavoro”. I sardi (sempre loro) che la Nato abbandoni l’isola. Il camion degli studenti medi intona “Bella ciao” in tutte le varianti possibili, dagli Zebda ai Modena City Ramblers. I ragazzini e le ragazzine saltano e ballano, mettono in scena il solito carnevale festaiolo. Ci si domanda, stavolta al limite dell’irritazione, cosa cazzo ci sia da ballare sulla sepoltura di un partigiano. I più assennati chiosano: “Sono ragazzi”, ma io non riesco a smettere di guardare con disprezzo quello spettacolo della natura. Ci sono altri due camion muniti di casse. Ma sembrano tacere, ovattati. Le bandiere dei Comunisti Italiani sventolano all’unisono. Marco Rizzo si fa i vasconi ai margini della fiumana. Su via Merulana c’è una cappa di gelo, Nichi Vendola ci passa accanto. Gli vorremmo chiedere come mai non ha regolarizzato la posizione dei precari che lavorano presso le cooperative che servono le Asl pugliesi. Ma non facciamo a tempo a raggiungerlo. Si intravede San Giovanni, col palco. Sembra il Primo maggio. Sospiriamo all’unisono. Chi porta lo striscione è ormai ibernato. Non ci avviciniamo neppure al grosso degli spettatori dello spettacolo di Ulderico Pesce. Sostiamo, bivacchiamo. Sarebbe bello, ci diciamo, assistere agli scossoni interni, ai dibattiti nei partiti, per capire cosa cambia – se cambia qualcosa – nella strategia politica del futuro prossimo. Ma a Foggia non sarà possibile. Rifondazione non esiste più da tempo. E poi, comunque, rimarremmo delusi. Non cambierà nulla. Quel che ci circonda è pura fiction, un atto di forza mediatico. Non ci pentiamo: era importante esserci, distribuire i nostri volantini, far conoscere a tanti sconosciuti le nostre condizioni, le nostre posizioni, fermarci a parlare, a consigliare, a criticare. Quel che dovrebbero fare sempre (e che non fanno mai) i centri sociali della capitale, se vogliono sfuggire alla compiaciuta e compita autoghettizzazione. Il “Ponte della Ghisolfa” entra nella piazza. Ripristinare il blocco autonomo, in coda ai cortei ufficiali, con le proprie dirompenti argomentazioni: di questo sentiamo un gran bisogno. Perché aldilà delle facili etichette, in piazza c’è gente in carne ed ossa, precari veri. Ed è quanto meno dissonante farsi paladini conto terzi di un’idea di principio senza praticarne le contraddizioni reali. Nella piazza entra di tutto. I “Radicali di sinistra”, un circolo “Carlo Pesacane” di Rionero che latineggia Hobbes (“Pacta sunt servanda”), quelli che contestano le basi militari. Ascanio Celestini racconta dell’Atesia. Noi dobbiamo tornare al parcheggio dell’Anagnina. Abbracciare i compagni che sono stati con noi, quelli che restano e quelli che partono per altre destinazioni. C’è tempo per un kebab. E per un paio di considerazioni ancora sul bisogno forsennato di non lasciare che altri spieghino al popolo che non è affatto costretto a subire ricatti per una vita. Un gruppetto esulta all’imbocco della metro: ha pareggiato il Napoli. La tv ci comunica che eravamo un milione. Nel pullman qualcuno commenta: “Un tempo ci accontentavamo di 200mila, adesso si sparano i milioni come niente fosse”.
I tempi cambiano.

21/10/2007 - estratto da "Plebe" n.24
Laboratorio Politico "Jacob" - via M.Pagano 38 - Foggia
www.agitproponline.com

venerdì 19 ottobre 2007

Il contante e la luna

Natale è alle porte. I commercianti – sebbene disorientati dal Ramadan dagli immigrati che scorrazzano a piede libero nel quartiere Ferrovia (!) – ne sono convinti. E corrono ai ripari, dando sfoggio di programmazione e lungimiranza. Servono dita delicate – conseguenti a spalle pazienti – che possano confezionare pacchi con motivi floreali, geometrici, spiritosi, benaugurali.
A ritmo d’un operaio di linea di Mirafiori.
Il negozio di dolciumi e rum di pregio in casse di rovere cerca una commessa con queste caratteristiche psicofisiche.
Un’impiegata a termine. Docile, buona, abile, rapida. Come la filippina nel retrobottega.
La proprietaria mi accoglie soddisfatta. È impegnata dietro al bancone, ma mi onora di dieci minuti della sua preziosa attenzione. Del resto, è lei che ha fatto richiesta d’avermi difronte.
Mi illustra il radioso avvenire, con dovizia di particolari.
In quel periodo – dice – il negozietto claustrofobicamente gonfio di mercanzie diventa frenetico. C’è viavai di clienti. E tutti pretendono una confezione consona. Lei non può, non potrà di certo, dato che avrà molto da fare a seguire le richieste, quelle ordinarie e quelle particolari, per le quali necessitano colpo d’occhio e competenza. Io dovrò – dovrei – occuparmi di chiudere scatole, agghindare buste, infiocchettare plichi, rigirare nastri con le forbici e sigillare con la cera lacca. Non solo. In alcuni momenti il viavai sarà tale e tanto, in barba alla crisi economica, che non potrò – potrei – limitarmi a questo. Ci sarà da fare altro. Dare una mano qua e là, una spolverata alla vetrina, un colpo di straccio ai banconi, una sistemata agli scaffali, una mano di Vileda ai pavimenti. E quando capiterà, un occhio ai clienti in attesa.
Tutto previsto. Nulla di più di quanto non chiedesse quel venditore di oggettistica etnica, nei pressi del mercato. La mia migliore faccia, quella diplomatica.
Chiedo: “E per tutto questo quanto percepirei?”.
La signora indietreggia, colpita come una nave mercantile finita nel bel mezzo di una battaglia navale. Un piccolo fulmine squarcia il cielo, come sul Golgota. Il rum ondeggia scosso nelle bottiglie di gran lusso. Il panforte non ha fegato per guardare oltre. Negli occhi della titolare s’è fatta notte. Scuote la testa, più delusa che frastornata. Se l’aspettava una richiesta così inconsueta. Ma nella sua innocenza mai avrebbe pensato che sarebbe giunta con tale spudorata arroganza, con tale cinismo. Vai a far del bene al popolo. Denaro, vile denaro, è tutto quello che questa gente senza spirito d’iniziativa sa chiedere. Monetizzare. Questa gentaglia monetizza tutto. Non ha più sentimenti, non ha più cuore. Ha ragione Ratzinger.
“Beh... se parti così mi tagli le gambe”, non può che dire.
E bisogna comprenderla. Il colpo è stato forte.
Nella mia infinita grettezza materialista non sono riuscita a vedere aldilà delle apparenze. Non ho percepito, come altri asceti avrebbero fatto, l’importanza di quella mansione. La gioia mistica del servire, l’incomparabile beatitudine del rendersi utili, il dolce sapore onirico del lustrare le superfici lavabili. Sono andata al sodo, in un mondo candido e romantico che prova aristocratico disprezzo a parlar di mercede. Maledetta me e la mia genia incolta!Avrei dovuto inginocchiarmi dinanzi a cotanta umiltà, sentire nel profondo la responsabilità, l’impegno e la possibilità che quella donna mi offriva. Così, gratuitamente.
Ed invece ho rincarato la dose.
“Ma perché, signora, cosa credeva, che venissi a lavorare per divertimento? Non ho più diciotto anni, non posso più accontentarmi della paghetta o di una pizza il sabato sera. Devo valutare se mi conviene”.
Parole bestiali pronunciate con fare da bestia. Dinanzi alle quali la titolare ha visto scorrere i suoi anni passati in letizia, a donare lavoro senza concreta contropartita.
“No, no, no... Lasciamo perdere allora. Io ho bisogno di provarti, di vedere come lavori”, mi ha detto. E mi ha salutato, con una punta di sofferenza nel cuore.
Uscendo da quel vestibolo di paradiso terrestre, non ho potuto fare a meno di riflettere.
Di pensare a quante diciottenni idealiste – a ritmo di una a settimana – infiocchetteranno pacchetti al posto mio, da Halloween alla vigilia della Natività. Riponendo in ogni riccio col nastrino rosso gocce di quell’innocenza allegra che a me manca del tutto.

lunedì 15 ottobre 2007

SCUOLA: Poerio: se 500 euro vi sembran pochi...

Le classi primavera, il contributo nascosto, la formazione professionale

Un altro corso di formazione alle porte per chi ambisce ad entrare nel mondo della scuola: “l’ultimo, purché dopo si lavori”, si dicono sospirando centinaia di aspiranti corsisti in fila per presentare la richiesta di concorrere per i trenta posti disponibili; tra loro i più navigati stanno mandando giù coscientemente l’ennesimo boccone amaro, i più sprovveduti stazionano senza saperlo sulla soglia di un tunnel di cui non si vede l’uscita.
Stavolta, però, le prospettive di inserimento professionale appaiono radiose, basta leggere il manifesto che pubblicizza l’iniziativa per scorgervi la lunga lista di enti che aspettano solo di assorbire il personale certificato e qualificato dal corso: le storiche scuole dell’infanzia, le imperiture cooperative sociali e le neonate classi primavera. La serietà del progetto e la professionalità di chi lo organizza, poi, sembra garantita dall’altrettanto nutrito elenco delle istituzioni locali che lo promuovono: Regione, Provincia, Unicef.
Nulla, dunque, di contestabile: nessuna magagna da smascherare, nessun misfatto da denunciare all’opinione della gente comune, nemmeno nel momento così propizio della massima diffusione della sensibilità antipolitica; eccepisci: tranne la costituzione del corso stesso.
Già, perché quello di “formazione professionale” è un concetto tanto opportunamente abusato quanto astutamente frainteso. Persino secondo l’unico linguaggio comprensibile dagli attuali attori sociali, ispirato dalla più volgare logica aziendalista, infatti, formare significa investire denaro al fine di creare nuove figure lavorative capaci di svolgere specifiche prestazioni richieste dal mercato. Quando questo criterio di selezione e reclutamento travalica i confini degli enti privati per essere recepito da quelli pubblici, finisce per essere convertito in una forma inedita e legalizzata di pratica clientelare in virtù della quale essi esercitano e perpetuano il proprio potere ricattatorio. “Se vuoi lavorare, devi pagare”; questo l’insistente ritornello che ci ronza nella testa, lo slogan più diffuso nella nostra generazione, il saggio consiglio dei nostri vecchi, la sentenza lapidaria che segna i tempi odierni, il principio valido indifferentemente dal modo in cui lo adottano il mafioso zelante, il sindacalista rampante e il politico di successo. Il nostro corso costa 500 euro, “neanche tanti” se paragonati alle cifre richieste per iniziative analoghe, rispetto alle quali manca della minima trasparenza nell’indicazione all’utenza dei costi, dei criteri di ammissione e della validità del titolo rilasciato, non essendo mai stato bandito pubblicamente, come la peggiore delle reclame ingannevoli, la più subdola delle televendite, la più scontata delle truffe.
Tuttavia, gli aspetti più deplorevoli della faccenda non sono da considerare una perversione dei meritori fini preposti, ma la conseguenza inevitabile del vigente sistema di reclutamento del personale docente, che sulle basi ideologiche del benessere diffuso e della scarsità delle risorse ha fatto dell’onerosa tassazione dei corsi abilitanti la propria principale fonte di sostentamento, della selezione meritocratica la propria legittimazione valoriale e del precariato perenne lo strumento dell’imposizione di condizioni inaccettabili. L’istituzione delle SSIS, di Scienze della formazione primaria, del Sostegno, dei corsi speciali, il business dei Master e dei corsi di perfezionamento e le idee di fondo che hanno ispirato tali riforme hanno aperto la breccia ad una tanto spietata quanto penosa concorrenza intestina, a vedere erroneamente come un favore (ottenuto casualmente o arbitrariamente) quello che è stato conquistato come un diritto (gratuito, garantito, universale): l’accessibilità del lavoro e dell’istruzione, ad accontentarsi di una situazione considerata migliore di quella di altre categorie professionali senza lasciarsi mai tentare dalle “scorciatoie” della solidarietà di classe e della rivendicazione collettiva.
L’intero sistema-scuola finisce per risentire di questo stato di cose, generando la profonda crisi delle sue componenti principali: gli istituti, che ricevono fondi (o ciò che ne rimane dai tagli sempre più frequenti ed incisivi) proporzionalmente alla “qualità” dei loro progetti, riconosciuta secondo parametri discutibili; gli insegnanti, che in simili condizioni rimangono privi della libertà mentale, della sicurezza economica e del tempo necessario per dedicarsi a ciò che viene chiesto loro; gli studenti, che vedono inesorabilmente ridotte le loro aspettative di vita, le loro aspettative future, le loro possibilità di carriera. Si realizza così la riduzione della scuola a quel “parcheggio” della quale spesso per pigrizia o superficialità i ragazzi vengono ritenuti i soli responsabili, senza che si ponga con sufficiente attenzione l’accento sui limiti oggettivi del contesto in cui sono inseriti.
In un panorama così desolante e avvilente come recuperare l’entusiasmo vitale, lo slancio creativo, l’impegno concreto che rende gli insegnanti non burocrati lamentosi né vittime passive, ma protagonisti della convivenza civile, promotori del cambiamento sociale, sostenitori della dignità della vita di tutti? Non basta l’ostinata ed egoistica difesa di uno status privilegiato (e ormai perduto), né rifugiarsi nella nicchia della trasmissione degli stessi valori alle nuove generazioni; occorre recuperare nel proprio orizzonte mentale e nella propria pratica quotidiana quella tensione alla conflittualità che rende la politica un progetto di lunga durata e di ampio respiro, coerente con una visione del mondo che prevede il libero accesso ai saperi e alle professioni e il diritto al lavoro e all’istruzione quali presupposti necessari alla realizzazione delle aspirazioni di ciascuno e ad un’esistenza meritevole di essere vissuta.

Icone flessibili

La mente umana fa l’abitudine a qualsiasi aberrazione.
Diceva Benigni, in uno spettacolo di qualche anno fa. Predantesco.

Nell’ottobre del 1994, esattamente tredici anni orsono, l’Italia intera si bloccò per manifestare contro la prima finanziaria berlusconiana. A Foggia eravamo più di ventimila, dissero, per il più grande corteo di sempre. I pensionati calavano in pullman dalla provincia per opporsi ai tagli, i lavoratori sfilavano compatti per difendere il diritto acquisito di diventare un giorno pensionati. I professori e gli infermieri facevano quadrato attorno alle vestigia dello stato sociale sotto scacco e noi studenti, con una buona dose d’idealismo e una atrettanto sostanziosa di confusione, mostravamo il nostro fiero sdegno contro l’ipotesi di parificazione tra scuole pubbliche e private. Contro la “privatizzazione dell’istruzione”, si diceva all’epoca. La prima era geologica dell’uomo di Arcore durò pochi mesi. Noi c’illudemmo d’averlo fatto vacillare e poi finito a colpi di passeggiate. Seguirono anni di governi tecnici e l’intera epopea del centrosinistra prodian-d’alemiano.
Nelle fabbriche cominciavano a circolare, con sempre maggiore insistenza, i prestampati che invitavano a sottoscrivere i fondi pensionistici privati. Tanto il governo vi toglie le pensioni, ammiccavano incauti e realisti i venditori di fumo. La volontà di lottare si affievoliva. Il tfr finiva nel vortice del mercato finanziario.

A scuola si visse l’epoca d’oro della depoliticizzazione, del disimpegno, dell’insubordinazione controllata e novembrina. I docenti e le docenti “di sinistra” s’impegnarono a fondo per depotenziare a dovere gli scatti d’impeto degli estremisti guevariani.
Nel 1995 l’Istituto tecnico per ragionieri Programmatori, che aveva acquisito tradizione ed esperienza nel campo, fu occupato solo virtualmente e senza un perché visibile, mentre nel 1996 l’intera agitazione nacque e si concluse nel breve volgere di un fine settimana. I tempi cambiavano rapidamente. All’università le tasse pagate in cambio di un viaggio da pendolare alle 6 del mattino non fiaccavano le sacche di resistenza. Sui tetti dell’ateneo si rischiavano una paralisi o una caduta nel vuoto per impedire l’innalzamento dei contributi d’iscrizione. Ma gli universitari sono animali strani, individualisti per biologia, che barattano il silenzio con la speranza di una breve permanenza e un posto al sole. Trionfava la meritocrazia, facevano capolino i fascisti, sotto mentite spoglie.
Nel 1998 raggiungemmo Roma per l’assedio al Ministero dell’Università. Poche centinaia di persone, sotto un sole autunnale, tra le fughe prospettiche dell’Eur. Contestavamo le bozze di rinnovamento delle facoltà, l’aumento delle tasse, il numero chiuso.
Il concetto di numero chiuso. Non le sue applicazioni pratiche.
Nel 1999 tornammo a Roma per la grande manifestazione nazionale in difesa della scuola pubblica. Eravamo 25mila. Più o meno le stesse cifre del corteo di Foggia di cinque anni prima. All’angolo tra la stazione Termini e corso Cavour incontrai dei compagni catanesi, preoccupatissimi: “Siamo pochi, pochissimi, ci stanno sfibrando”. Condivisi quel timore fondato: pochi anni ed erano già “altri tempi” quelli dei 50mila a Napoli, contro D’Onofrio. Senza contare il milione in piazza a Roma, per la spallata al nano. La stagione eroica della difesa dell’articolo 18, la partita di retroguardia e d’orgoglio della classe operaia cofferatiana, chiuse un ciclo.

Oggi, trentuno anni suonati, ragiono già come un reduce della guerra di Crimea.
Ripenso a quei giorni di sciopero e piazza, che allora pure dovevano apparirmi sbiadita fotocopia degli anni gloriosi, come ad un pezzo di storia da rimpiangere. Come ad una battaglia della Campagna d’Italia.
Dopo sono venute le delusioni cocenti e le cornamuse hanno suonato forte al funerale del mio idealismo tardo-adolescenziale.
Ricordo il primo ciclo di SSIS e il timido blocco dei concorsisti storici.
Ricordo compagni di lotta e di trincea entrati nelle scuole di specializzazione a pagamento della ministra Moratti difendere il proprio status in opposizione a quegli avanzi di segreteria accampati (coi loro cartelli alla Ken Loach, scritti con l’Uni-Posca), in attesa di ruolo da anni.
E il collegamento immediato, cerebrale e umorale: i giorni del furore della Sata di Melfi, i pastori alla catena di montaggio, con la testa china e la speranza di infrangere – come Stakanov del capitale – il record di produzione, coi ritmi serratissimi e l’obiettivo di strappare una riconferma. Nel regno dell’interinale ben oltre le quote pattuite. Nel feudo dell’iniziativa privata coi finanziamenti pubblici. Mentre tutto attorno era scontro feroce tra i metalmeccanici e la Fiat in odor di General Motors. Mentre Arese chiudeva i battenti e Termini Imerese veniva dichiarata obsoleta, un reperto dell’archeologia industriale democristiana in riva al mare. Ricordo benissimo che mentre l’Italia operaia manifestava, bloccava turni e produzione, chiudeva al traffico strade e autostrade, a Melfi si lavorava come e più di sempre. Senza che il vento della rivolta soffiasse sulle cupole della cittadella del progresso di San Nicola. Ricordo le facce dei lavoratori siciliani, sfatte da ore di pullman e traghetto, disperazione e rabbia, giunte nella Basilicata felix per persuadere i pastori e i metal-mezzadri a marinare, per qualche giorno, l’appuntamento con la gloria del reparto. Ci riuscirono, come solo ci si può riuscire quando la forza dell’ultima spiaggia detta la linea. E dirige il pugno al bersaglio.
Per diversi giorni il picchetto resse. La prima volta della Sata, che salvò il posto al non più competitivo stabilimento palermitano.
E mi ritrovo a pensare che se i concorsisti storici, a cui stava sfuggendo di mano la fase, avessero fatto altrettanto, avessero all’epoca bloccato sull’uscio i giovanotti del primo ciclo di SSIS, probabilmente qualcuno si sarebbe scottato entrambe le mani. Ed avrebbe inseguito più miti consigli, dinanzi alla compattezza del blocco.
Invece fecero l’errore strategico di considerare quell’appendice d’insegnamento a pagamento un semplice orpello del sistema. E non si accorsero di recitare la parte di un esercito medievale che sottovaluta il primo colpo d’artiglieria.

Sono mutati i parametri, si dice sempre quando si deve camuffare un’impotenza.
E, pur nella convinzione che non si possa fermare la corsa alla Tav innalzando bucoliche alle carrozze a vapore, constato che passo dopo passo ci stiamo assuefacendo, stiamo decurtando i nostri livelli di indignazione e di conseguente difesa. Stiamo abbassando la guardia, molto più che pericolosamente. Nella cattedrale di Foggia, in una cappella laterale, c’è un Cristo in croce. La leggenda narra che il suo volto stravolto dal sangue e dai colpi, dalla morte vicina, s’abbassi progressivamente, col passare del tempo. Sempre più giù, impercettibilmente, inesorabilmente. E che quando giungerà a ricongiungersi con la spalla destra, allora sarà inevitabile la fine del mondo.
Noi siamo come quel Cristo. La tendenza al peggioramento ci fa flettere mese dopo mese, ora dopo ora, progetto dopo progetto. Ci pieghiamo sotto il peso dell’inevitabile, muti e sofferenti, incapaci di abilitare progetti di resurrezione. Abbiamo creduto che welfare, salari, pensioni fossero leggi di natura. E adesso che abbiamo scoperto che non è così, che quanto in basso può spingerci il sistema tanto più in basso sostiamo, stiamo facendo l’abitudine a masticare terra. E a discettare sulle diverse qualità di fertilizzanti, con piglio da cultori del genere.
Sveglia!
Lo spirito deve essere quello di sempre: guardare da dove siamo partiti, cosa chiedevamo quando chiedevamo ancora qualcosa, e tracciare una linea sull’oggi, su quello che siamo diventati.

Lo scoprire, con orrore, che quel che dieci anni fa era tabù oggi è la norma, potrebbe far scuotere qualche coscienza assopita. Non è un processo automatico, ma conviene provarci.

(Indesiderate) vacanze romane

Il telefonino ha cominciato a suonare mentre Gwyneth Paltrow – in una delle sue due vite parallele – cercava di annunciare la sua gravidanza al distratto boyfriend. Una voce femminile dall’altra parte dell’apparecchio infernale. Una convocazione. Un colloquio di lavoro. Incredibile a dirsi, di questi tempi. Di più: una prima scrematura già portata a termine. C. fa parte del secondo blocco, quello residuo, quello che – solo in virtù del curriculum – è passato alle finali. “Richiamami il 16 agosto e valutiamo se prendere l’appuntamento per il giorno stesso o per l’indomani”.
C. ha dormito tre ore scarse la notte di ferragosto. Poi ha preso il treno Ok, alle 6:35. I biglietti a 9,00 euro erano, ovviamente, esauriti da settimane. Onde per cui è salita a bordo con un tagliando da 19. Si è fatta dare le chiavi di casa d’amiche, ma conta di restarci poco. Anzi, spera di riuscire a fare tutto in mattinata, di sbrigare la pratica e tornare a casa prima del calar del sole. Ha dormito cullata dalle rotaie.
Giunta a destinazione, ha ricaricato il cellulare e chiamato il magic number. La stessa voce della volta prima le ha risposto, interlocutoria, che l’appuntamento era da considerarsi slittato al 17. Ha provato a lungo le facce per la prima impressione, ma non ha potuto nascondere una smorfia. Ormai è a Roma, fa un caldo olimpico, e bisognerà restarci per almeno un giorno sano: lavarsi, mangiare, lavarsi, mangiare. È scesa a comprare le Diana rosse da venti. Ha contattato i pochi fuori sede che conosce rimasti nell’urbe. Si è concessa il lusso di un piatto di pasta a sera, con annessa minerale: 10 euro, obolo santo per oliare un’economia stagnante.
Ha riposato, finalmente. Stamattina, appena sveglia, ha composto il numero. La voce femminile le ha detto che l’appuntamento era da considerarsi slittato al 20. C. ha un appuntamento non derogabile domenica sera e trentatré euro in tasca, buoni per accaparrarsi un biglietto d’Eurostar. Chiede spiegazioni. Non ne ottiene. Cosa vuoi pretendere, cocca. Già è tanto se t’abbiamo presa in considerazione. Se t’abbiamo dato il brivido dell'occupazione. Il mercato del lavoro è un reality, lo sai o no? E se tu non hai la pazienza di subire il fuoco lento dei bollitori di maestranze, non fai altro che autonominarti. Ti elimini. Il pubblico farà a meno di te e ci faciliti pure il compito.
C. ha fatto appena a tempo a commentare che “non è corretto”.
Ma a chi vuoi che freghi, la correttezza.
Adesso C. è un puntino umano immerso nell’alveare della stazione Termini. I biglietti dell’Eurostar delle 13:38 sono esauriti. Ci sono solo biglietti per quello delle 15 e passa. Non ci sono musei aperti e fa caldo. Il sol pensiero dell’attesa snerva.
Se dovesse esplodere una bomba nell’atrio, probabilmente il suo nome e cognome finirebbero nell’elenco degli eroi nazionali. Ma se questo non dovesse accadere, sono sicuro che sul treno gradirà la compagnia del poeta Tonino Guerra che avrà modo di spiegarle, per filo e per segno, perché l’ottimismo è il profumo della vita.

martedì 9 ottobre 2007

Contro la precarietà delle nostre vite, Riaccendiamo il conflitto

Ci sentiamo in obbligo di rassicurare un po’ di persone. Premier e ministri del lavoro di destra o progressisti con giudizio, analisti finanziari e direttori di centri studi economici, governatori di banche e giornalisti di Sole 24 Ore o Corriere della Sera, intellettuali liberal già marxisti e predicatori del darwinismo sociale, cinici confindustriali o sindacalisti coscienziosi.

Noi, alla nostra condizione di precarietà, non ci rassegneremo mai.

Mettetevelo bene in testa una volta per sempre. Non ci stiamo ad offrire le nostre vite a vantaggio esclusivo dell’arricchimento e del benessere delle classi dominanti. Non saremo noi a pagare il risanamento dei conti pubblici o di imprese sull’orlo del fallimento. Non offriremo il nostro fiato ad un capitalismo moribondo, assistito e parassita, dedito alla finaziarizzazione dell’economia e ai giochi speculativi consumati sulla pelle di milioni di uomini e donne, senza alcun obiettivo di crescita sociale.

Non è solo questione di flessibilità o Legge 30. Oggi la precarietà segna non solo il lavoro ma per intero le nostre vite, di occupati e disoccupati, di nativi e migranti. Per queste ragioni non ci interessa alcuna forma negoziale, nessun tampone legislativo messo alla buona da chi ha aperto il baratro lungo il quale siamo costretti a camminare. Né ci interessa la tutela di chi ad ogni rivendicazione o aumento salariale ha ceduto sul piano della flessibilità e della precarietà, che da optional è diventata unica forma possibile di impiego.

Siamo stanchi di essere considerati un mero dato statistico, forza-lavoro oltremodo flessibile, che accetta – soprattutto se è giovane o immigrata – di lavorare per salari minimi o anche gratis, nella speranza di una futura assunzione; o di lavorare solo quando il suo “datore di lavoro” ne ha effettivamente bisogno; di poter essere licenziata da un momento all’altro; che si rassegna alla pratica del lavoro interinale e dei salari regionalmente differenziati; di condizioni di sicurezza, igiene, orari sotto lo standard legale. Nessuna strada di liberazione arriva nemmeno dal lavoro autonomo, dove il popolo delle partite Iva si autoimpone livelli di sfruttamento che mai accetterebbe all’esterno.

Dietro le parole flessibilità e precariato si celano vite in carne e ossa, sofferenze e dignità offese, ricatti e sfruttamento. Nella società che ha eretto a proprio Dio il lavoro, il lavoro sta diventando raro come l’aria respirabile nelle città. I figli di, poche elité che hanno accesso ai sempre più costosi network del sapere, gli immancabili raccomandati. Per essi la strada è spianata. Gli altri non potranno mai aspirare ad un posto al sole e finiranno ai margini della società, con un’unica funzione, quella dell’esempio deterrente. Il fine, come da regola base del capitalismo, è mettere gli esclusi davanti all’alternativa: lavorare a qualsiasi condizione o morire di fame. Accettare il ricatto pena l’apartheid sociale, il marchio di “fallito”. Una costrizione silenziosa che prova a spegnere ogni focolaio di conflitto o di resistenza. Perché ad occuparsi degli esclusi della magnifica e progressiva società del lavoro, di questa “immondizia umana”, è chiamata la polizia.

La distruzione delle tutele sociali, del welfare statale, la restrizione nell’accesso ai diritti minimi di cittadinanza –la casa, l’istruzione, il sapere – non fa altro che gettare buona parte degli esclusi e non solo nella barbarie di una concorrenza cannibalizzata che allontana da ogni prospettiva di emancipazione, di libertà.

Tecniche di dominazione sociale alle quali ribellarsi non solo giusto è ma necessario.

Quel che ci interessa è soffiare sul fuoco di pratiche alternative e conflittuali. Ci interessa che dal divario tra i pochi ricchi e i sempre più poveri possano rinascere la lotta. Ci interessa che la lotta non finisca strumentalmente imbrigliata, depotenziata, delegittimata. Vogliamo che a pagare i costi della Crisi sia il padronato, chi ha vissuto di rendite di posizione in tutti questi anni.

Vogliamo reddito per tutti, lavoro o non lavoro. Vogliamo il diritto all’abitare e al canone sociale. L’adeguamento di salari e stipendi al costo reale della vita. Vogliamo la tassazione delle rendite finanziarie. Vogliamo la tutela della salute e la libera e gratuita circolazione dei saperi, contro ogni forma di aziendalizzazione di scuole e università. Vogliamo un forte potenziamento delle politiche sociali, la cancellazione della Legge 30 e anche del Pacchetto Treu, la chiusura dei Cpt, il diritto di asilo per i migranti.

Chi pensate potrà venire incontro a queste richieste? La risposta ce la diamo da soli: nessuno. Occorre allora rispolverare vecchie parole d’ordine, per una nuova lotta di classe. Senza guardare in faccia a chicchessia. Come occupati precari o flessibili, disoccupati, studenti, lavoratori a nero, rilanciamo l’unica strada possibile, l’autorganizzazione. Per un impegno e una politica che parta dal basso, da ognuno di noi, per un cambio radicale del sistema, senza deleganti e delegati.

Riprendiamoci tutto, a partire dalla nostra dignità.