Le classi primavera, il contributo nascosto, la formazione professionale
Un altro corso di formazione alle porte per chi ambisce ad entrare nel mondo della scuola: “l’ultimo, purché dopo si lavori”, si dicono sospirando centinaia di aspiranti corsisti in fila per presentare la richiesta di concorrere per i trenta posti disponibili; tra loro i più navigati stanno mandando giù coscientemente l’ennesimo boccone amaro, i più sprovveduti stazionano senza saperlo sulla soglia di un tunnel di cui non si vede l’uscita.
Stavolta, però, le prospettive di inserimento professionale appaiono radiose, basta leggere il manifesto che pubblicizza l’iniziativa per scorgervi la lunga lista di enti che aspettano solo di assorbire il personale certificato e qualificato dal corso: le storiche scuole dell’infanzia, le imperiture cooperative sociali e le neonate classi primavera. La serietà del progetto e la professionalità di chi lo organizza, poi, sembra garantita dall’altrettanto nutrito elenco delle istituzioni locali che lo promuovono: Regione, Provincia, Unicef.
Nulla, dunque, di contestabile: nessuna magagna da smascherare, nessun misfatto da denunciare all’opinione della gente comune, nemmeno nel momento così propizio della massima diffusione della sensibilità antipolitica; eccepisci: tranne la costituzione del corso stesso.
Già, perché quello di “formazione professionale” è un concetto tanto opportunamente abusato quanto astutamente frainteso. Persino secondo l’unico linguaggio comprensibile dagli attuali attori sociali, ispirato dalla più volgare logica aziendalista, infatti, formare significa investire denaro al fine di creare nuove figure lavorative capaci di svolgere specifiche prestazioni richieste dal mercato. Quando questo criterio di selezione e reclutamento travalica i confini degli enti privati per essere recepito da quelli pubblici, finisce per essere convertito in una forma inedita e legalizzata di pratica clientelare in virtù della quale essi esercitano e perpetuano il proprio potere ricattatorio. “Se vuoi lavorare, devi pagare”; questo l’insistente ritornello che ci ronza nella testa, lo slogan più diffuso nella nostra generazione, il saggio consiglio dei nostri vecchi, la sentenza lapidaria che segna i tempi odierni, il principio valido indifferentemente dal modo in cui lo adottano il mafioso zelante, il sindacalista rampante e il politico di successo. Il nostro corso costa 500 euro, “neanche tanti” se paragonati alle cifre richieste per iniziative analoghe, rispetto alle quali manca della minima trasparenza nell’indicazione all’utenza dei costi, dei criteri di ammissione e della validità del titolo rilasciato, non essendo mai stato bandito pubblicamente, come la peggiore delle reclame ingannevoli, la più subdola delle televendite, la più scontata delle truffe.
Tuttavia, gli aspetti più deplorevoli della faccenda non sono da considerare una perversione dei meritori fini preposti, ma la conseguenza inevitabile del vigente sistema di reclutamento del personale docente, che sulle basi ideologiche del benessere diffuso e della scarsità delle risorse ha fatto dell’onerosa tassazione dei corsi abilitanti la propria principale fonte di sostentamento, della selezione meritocratica la propria legittimazione valoriale e del precariato perenne lo strumento dell’imposizione di condizioni inaccettabili. L’istituzione delle SSIS, di Scienze della formazione primaria, del Sostegno, dei corsi speciali, il business dei Master e dei corsi di perfezionamento e le idee di fondo che hanno ispirato tali riforme hanno aperto la breccia ad una tanto spietata quanto penosa concorrenza intestina, a vedere erroneamente come un favore (ottenuto casualmente o arbitrariamente) quello che è stato conquistato come un diritto (gratuito, garantito, universale): l’accessibilità del lavoro e dell’istruzione, ad accontentarsi di una situazione considerata migliore di quella di altre categorie professionali senza lasciarsi mai tentare dalle “scorciatoie” della solidarietà di classe e della rivendicazione collettiva.
L’intero sistema-scuola finisce per risentire di questo stato di cose, generando la profonda crisi delle sue componenti principali: gli istituti, che ricevono fondi (o ciò che ne rimane dai tagli sempre più frequenti ed incisivi) proporzionalmente alla “qualità” dei loro progetti, riconosciuta secondo parametri discutibili; gli insegnanti, che in simili condizioni rimangono privi della libertà mentale, della sicurezza economica e del tempo necessario per dedicarsi a ciò che viene chiesto loro; gli studenti, che vedono inesorabilmente ridotte le loro aspettative di vita, le loro aspettative future, le loro possibilità di carriera. Si realizza così la riduzione della scuola a quel “parcheggio” della quale spesso per pigrizia o superficialità i ragazzi vengono ritenuti i soli responsabili, senza che si ponga con sufficiente attenzione l’accento sui limiti oggettivi del contesto in cui sono inseriti.
In un panorama così desolante e avvilente come recuperare l’entusiasmo vitale, lo slancio creativo, l’impegno concreto che rende gli insegnanti non burocrati lamentosi né vittime passive, ma protagonisti della convivenza civile, promotori del cambiamento sociale, sostenitori della dignità della vita di tutti? Non basta l’ostinata ed egoistica difesa di uno status privilegiato (e ormai perduto), né rifugiarsi nella nicchia della trasmissione degli stessi valori alle nuove generazioni; occorre recuperare nel proprio orizzonte mentale e nella propria pratica quotidiana quella tensione alla conflittualità che rende la politica un progetto di lunga durata e di ampio respiro, coerente con una visione del mondo che prevede il libero accesso ai saperi e alle professioni e il diritto al lavoro e all’istruzione quali presupposti necessari alla realizzazione delle aspirazioni di ciascuno e ad un’esistenza meritevole di essere vissuta.
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3 commenti:
salve,
radioarchimede ha ricevuto l'invito a leggere il vostro blog, presto lo linkeremo sul sito, per il momento verrà linkato su questo blog dal quale vi scriviamo.
noi siamo con voi nella speranza di poter un giorno abbandonare questo stato di precariato nel quale viviamo.
in bocca al lupo a tutti voi
e.....buon lavoro!
Grazie di tutto.
Teniamoci in contatto.
molto intiresno, grazie
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