lunedì 15 ottobre 2007

Icone flessibili

La mente umana fa l’abitudine a qualsiasi aberrazione.
Diceva Benigni, in uno spettacolo di qualche anno fa. Predantesco.

Nell’ottobre del 1994, esattamente tredici anni orsono, l’Italia intera si bloccò per manifestare contro la prima finanziaria berlusconiana. A Foggia eravamo più di ventimila, dissero, per il più grande corteo di sempre. I pensionati calavano in pullman dalla provincia per opporsi ai tagli, i lavoratori sfilavano compatti per difendere il diritto acquisito di diventare un giorno pensionati. I professori e gli infermieri facevano quadrato attorno alle vestigia dello stato sociale sotto scacco e noi studenti, con una buona dose d’idealismo e una atrettanto sostanziosa di confusione, mostravamo il nostro fiero sdegno contro l’ipotesi di parificazione tra scuole pubbliche e private. Contro la “privatizzazione dell’istruzione”, si diceva all’epoca. La prima era geologica dell’uomo di Arcore durò pochi mesi. Noi c’illudemmo d’averlo fatto vacillare e poi finito a colpi di passeggiate. Seguirono anni di governi tecnici e l’intera epopea del centrosinistra prodian-d’alemiano.
Nelle fabbriche cominciavano a circolare, con sempre maggiore insistenza, i prestampati che invitavano a sottoscrivere i fondi pensionistici privati. Tanto il governo vi toglie le pensioni, ammiccavano incauti e realisti i venditori di fumo. La volontà di lottare si affievoliva. Il tfr finiva nel vortice del mercato finanziario.

A scuola si visse l’epoca d’oro della depoliticizzazione, del disimpegno, dell’insubordinazione controllata e novembrina. I docenti e le docenti “di sinistra” s’impegnarono a fondo per depotenziare a dovere gli scatti d’impeto degli estremisti guevariani.
Nel 1995 l’Istituto tecnico per ragionieri Programmatori, che aveva acquisito tradizione ed esperienza nel campo, fu occupato solo virtualmente e senza un perché visibile, mentre nel 1996 l’intera agitazione nacque e si concluse nel breve volgere di un fine settimana. I tempi cambiavano rapidamente. All’università le tasse pagate in cambio di un viaggio da pendolare alle 6 del mattino non fiaccavano le sacche di resistenza. Sui tetti dell’ateneo si rischiavano una paralisi o una caduta nel vuoto per impedire l’innalzamento dei contributi d’iscrizione. Ma gli universitari sono animali strani, individualisti per biologia, che barattano il silenzio con la speranza di una breve permanenza e un posto al sole. Trionfava la meritocrazia, facevano capolino i fascisti, sotto mentite spoglie.
Nel 1998 raggiungemmo Roma per l’assedio al Ministero dell’Università. Poche centinaia di persone, sotto un sole autunnale, tra le fughe prospettiche dell’Eur. Contestavamo le bozze di rinnovamento delle facoltà, l’aumento delle tasse, il numero chiuso.
Il concetto di numero chiuso. Non le sue applicazioni pratiche.
Nel 1999 tornammo a Roma per la grande manifestazione nazionale in difesa della scuola pubblica. Eravamo 25mila. Più o meno le stesse cifre del corteo di Foggia di cinque anni prima. All’angolo tra la stazione Termini e corso Cavour incontrai dei compagni catanesi, preoccupatissimi: “Siamo pochi, pochissimi, ci stanno sfibrando”. Condivisi quel timore fondato: pochi anni ed erano già “altri tempi” quelli dei 50mila a Napoli, contro D’Onofrio. Senza contare il milione in piazza a Roma, per la spallata al nano. La stagione eroica della difesa dell’articolo 18, la partita di retroguardia e d’orgoglio della classe operaia cofferatiana, chiuse un ciclo.

Oggi, trentuno anni suonati, ragiono già come un reduce della guerra di Crimea.
Ripenso a quei giorni di sciopero e piazza, che allora pure dovevano apparirmi sbiadita fotocopia degli anni gloriosi, come ad un pezzo di storia da rimpiangere. Come ad una battaglia della Campagna d’Italia.
Dopo sono venute le delusioni cocenti e le cornamuse hanno suonato forte al funerale del mio idealismo tardo-adolescenziale.
Ricordo il primo ciclo di SSIS e il timido blocco dei concorsisti storici.
Ricordo compagni di lotta e di trincea entrati nelle scuole di specializzazione a pagamento della ministra Moratti difendere il proprio status in opposizione a quegli avanzi di segreteria accampati (coi loro cartelli alla Ken Loach, scritti con l’Uni-Posca), in attesa di ruolo da anni.
E il collegamento immediato, cerebrale e umorale: i giorni del furore della Sata di Melfi, i pastori alla catena di montaggio, con la testa china e la speranza di infrangere – come Stakanov del capitale – il record di produzione, coi ritmi serratissimi e l’obiettivo di strappare una riconferma. Nel regno dell’interinale ben oltre le quote pattuite. Nel feudo dell’iniziativa privata coi finanziamenti pubblici. Mentre tutto attorno era scontro feroce tra i metalmeccanici e la Fiat in odor di General Motors. Mentre Arese chiudeva i battenti e Termini Imerese veniva dichiarata obsoleta, un reperto dell’archeologia industriale democristiana in riva al mare. Ricordo benissimo che mentre l’Italia operaia manifestava, bloccava turni e produzione, chiudeva al traffico strade e autostrade, a Melfi si lavorava come e più di sempre. Senza che il vento della rivolta soffiasse sulle cupole della cittadella del progresso di San Nicola. Ricordo le facce dei lavoratori siciliani, sfatte da ore di pullman e traghetto, disperazione e rabbia, giunte nella Basilicata felix per persuadere i pastori e i metal-mezzadri a marinare, per qualche giorno, l’appuntamento con la gloria del reparto. Ci riuscirono, come solo ci si può riuscire quando la forza dell’ultima spiaggia detta la linea. E dirige il pugno al bersaglio.
Per diversi giorni il picchetto resse. La prima volta della Sata, che salvò il posto al non più competitivo stabilimento palermitano.
E mi ritrovo a pensare che se i concorsisti storici, a cui stava sfuggendo di mano la fase, avessero fatto altrettanto, avessero all’epoca bloccato sull’uscio i giovanotti del primo ciclo di SSIS, probabilmente qualcuno si sarebbe scottato entrambe le mani. Ed avrebbe inseguito più miti consigli, dinanzi alla compattezza del blocco.
Invece fecero l’errore strategico di considerare quell’appendice d’insegnamento a pagamento un semplice orpello del sistema. E non si accorsero di recitare la parte di un esercito medievale che sottovaluta il primo colpo d’artiglieria.

Sono mutati i parametri, si dice sempre quando si deve camuffare un’impotenza.
E, pur nella convinzione che non si possa fermare la corsa alla Tav innalzando bucoliche alle carrozze a vapore, constato che passo dopo passo ci stiamo assuefacendo, stiamo decurtando i nostri livelli di indignazione e di conseguente difesa. Stiamo abbassando la guardia, molto più che pericolosamente. Nella cattedrale di Foggia, in una cappella laterale, c’è un Cristo in croce. La leggenda narra che il suo volto stravolto dal sangue e dai colpi, dalla morte vicina, s’abbassi progressivamente, col passare del tempo. Sempre più giù, impercettibilmente, inesorabilmente. E che quando giungerà a ricongiungersi con la spalla destra, allora sarà inevitabile la fine del mondo.
Noi siamo come quel Cristo. La tendenza al peggioramento ci fa flettere mese dopo mese, ora dopo ora, progetto dopo progetto. Ci pieghiamo sotto il peso dell’inevitabile, muti e sofferenti, incapaci di abilitare progetti di resurrezione. Abbiamo creduto che welfare, salari, pensioni fossero leggi di natura. E adesso che abbiamo scoperto che non è così, che quanto in basso può spingerci il sistema tanto più in basso sostiamo, stiamo facendo l’abitudine a masticare terra. E a discettare sulle diverse qualità di fertilizzanti, con piglio da cultori del genere.
Sveglia!
Lo spirito deve essere quello di sempre: guardare da dove siamo partiti, cosa chiedevamo quando chiedevamo ancora qualcosa, e tracciare una linea sull’oggi, su quello che siamo diventati.

Lo scoprire, con orrore, che quel che dieci anni fa era tabù oggi è la norma, potrebbe far scuotere qualche coscienza assopita. Non è un processo automatico, ma conviene provarci.

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