Sono distratto. Dal video acceso figurine fanno salotto. Amabilmente. “Cominciamo bene”, Rai Tre, qualche giorno fa. Mi concentro sulla distinta, rampante silouette della signora più ciarliera. Ha l’aria di chi è profondamente convinto di ciò che dice. E quel che dice assume i contorni del verbo incarnato. Faccio maggiore attenzione, scopro dettagli. È la responsabile di un’azienda che non ho capito, con molti anni di esperienza sul groppone. È un’esperta di risorse umane, una selezionatrice di personale. Mi viene in mente la protagononista dell’ultimo film di Ken Loach. Ma questa non ha l’aria sfatta di chi è nottetempo incappata nei suoi lavoratori precarizzati. Risponde a interrogativi distesi come tappetini, con lo charme di certe aristocratiche che narrano al volgo i precetti dello stare in società. Parla di individualità flessibili come se parlasse di posate d’argento e servizi di piatti decorati. L’estetica e la sostanza del Nuovo Galateo professionale. Spiega come ci si comporta ad un colloquio di lavoro, come si compila un curriculum vitae. Al quesito: “Ma a chi tocca parlare di soldi? Al candidato o al datore di lavoro?”, mi posiziono sulla sedia come se fosse la poltroncina di un aereo in decollo. So che sta per arrivare la risposta più significativa di tutte, e apro le orecchie mantenendomi ai braccioli. La signora fa una smorfia che è tutto dire. Poi sancisce, senza tema di smentita: “Il candidato non deve mai parlare di soldi”, sottintendendo che sarà il buon padrone a farlo, a tempo e luogo debito. La sedia s’alza in volo. Lo sapevo. È in linea: i proprietari di bottega, i responsabili delle multinazionali, i commercianti al dettaglio hanno padiglioni auricolari troppo teneri per simili sconcezze materialiste. Vorrei telefonare, come certi pensionati, dire in diretta alla dispensatrice di perle di buone maniere cosa pensano quelli come me di quelli come lei. Ma non esiste linea diretta. E desisto. Il comandamento ha preso piede. I lavoratori, queste strane bestie informi, devono perdere la cattiva abitudine di informarsi sulla mercede.
A sera sono in centro. Ragazzi e ragazze pigolanti sciamano da un locale all’altro.
Io sono in un pub, al bancone. Ma non per ordinare una Leffe.
Ho appena chiesto un impiego part-time. Fuori c’è il cartello – cercano personale – e il titolare è pensoso. Mi sta squadrando. Analizza i miei sopraccigli. Mi domanda se ho voglia di lavorare. Eccome, mi verrebbe da rispondere, è la mia massima aspirazione servire birre agli sfaccendati figli di papà o agli intellettuali “in” della Rive Gauche foggiana. Annuisco. Mi chiede se ho precedenti esperienze. Gli faccio l’elenco dei mozziconi di gloria raccattati in giro, in questi anni di trasformazione liberale. Resta diffidente, sulle sue. Mi confida che molta gente con le mie stesse credenziali ha preso il largo appena ha potuto. Che tutti garantivano fedeltà e massima disponibilità, da principio. Ingrati, penso, si deve essere proprio ingrati per rifiutare un posto così...
Si scuote. Il colloquio sembra finito. Lo è. Mi saluta e garantisce che mi farà sapere. Ha il mio numero. Ma prima di vedermi di spalle all’uscita si sente in dovere di gratificarmi, di donarmi qualche seme di speranza. Mi conforta: “Hai buone possibilità comunque, perche è apprezzabile il fatto che non mi abbia chiesto quanto pago...”.
Sorrido confortato. Esco soddisfatto. Ebbro di gioia.
Il vademecum del perfetto monaco obbidiente ha fatto scuola.
lunedì 12 novembre 2007
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1 commento:
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